Don Bosco

Contadino di Dio o Santo Sociale?

La Storia ama i paragoni e traccia nel tempo oscure simmetrie. II Centenario di don Bosco suggerisce alcune semplici riflessioni sulla realtà sociale in cui visse. Che non si è spenta dopo di lui, anzi si è evoluta grandemente. Tra gli attributi pertanto, che si danno a don Bosco, quasi per aggiungergli una gradita modernità, vi è quello di Santo Sociale, collocandolo tra i personaggi dell’ottocento piemontese che ebbero una particolare attenzione ai problemi sociali.

Nulla ci permette di dire che don Bosco abbia ripudiato la vita contadina, nella quale era nato e dove l’ambiente, i volti, i caratteri, le esperienze, nutrirono e plasmarono i casi della sua giovinezza, come i succhi che una pianta trae largamente dal suolo in cui è radicata.
Però don Bosco lasciò l’antica patria campagnola e andò verso la nuova umanità cittadina, con il sentimento della civiltà urbana sopra quello del paese. Chiamò a sé, con eccezionale capacità, le nuove generazioni, e a queste si sentì più stretto che non alla gente del proprio sangue.

Un volgo disperso

Alla periferia della città ondeggiava quel popolo di garzoni che sembrava in cerca di un capo e di una idea chiara per liberarsi dalla schiavitù e dalla miseria.
“II giovane che cresce nelle strade della sua città, prima vi chiederà una elemosina, poi ve la esigerà, e infine se la farà consegnare con la rivoltella in pugno”.
Sono parole di don Bosco, sorprendenti e diremmo anche profetiche.

Potrebbero sembrare un colorito squarcio oratorio qualora non sapessimo che se il primo passo di don Bosco verso i giovani fu la compassione, il secondo fu subito quello di toglierli dalla strada e collocarli a lavorare presso qualche onesto padrone.
Ha ormai raggiunto un’importanza storica un documento che è il primo testo di convenzione e contratto di lavoro, stipulato da don Bosco e un impresario minusiere, a favore di un apprendista minorenne.

Nella Torino di metà ottocento, sovrappopolata di immigrati e soprattutto di ragazzi sbandati, sovente vittime di sfruttatori di ogni genere, questo tipo di contratto documenta la sensibilità umana e sociale del sacerdote per la valorizzazione del giovane lavoratore nei suoi diritti e nei suoi doveri.

I contratti di don Bosco appartengono evidentemente a un periodo storico ben preciso, al di là del quale sarebbe erroneo interpretarli. Tuttavia bisogna riconoscere che don Bosco ebbe l’intuizione della nascente società industriale e dei problemi che venivano imponendosi in maniera sempre più scottante e pericolosa. E mentre la visione economica del conte di Cavour, suo contemporaneo, fu essenzialmente rivolta allo sviluppo della borghesia agraria imprenditoriale, don Bosco, superando l’ambito della tradizionale concezione dell’assistenza, seppe corrispondere, fondando le scuole professionali, alla necessità di formare con i giovani del popolo, pratici operai, che entravano con un mestiere subito redditizio, nel mondo del lavoro.
Cavour operò con abilità e passione per il riscatto nazionale. mLa sua grandezza è piena. Diversa, ma non minore è la grandezza di don Bosco per il riscatto sociale dei giovani lavoratori.

Il lavoro è sacro

Perché i giovani non fossero sfruttati, don Bosco pretendeva che il datore di lavoro, come cittadino, non commettesse ingiustizia, e, come uomo, trattasse umanamente i giovani dipendenti. Difendeva il ragazzo perché non diventasse una macchina per il lavoro.
Il proposito di don Bosco è quello di sviluppare sia nelle forze del lavoro come in quelle dell’impresa, il senso della responsabilità umana e cristiana e non la glorificazione del denaro e del successo, come avviene ancora nella nostra società attuale.
In tempi in cui le dottrine liberali lasciavano che i giovani fossero sfruttati dalla concorrenza, don Bosco estendeva al lavoro la categoria dei valori cristiani, assicurando un contrappeso religioso alla esaltazione del potere del padrone. II rapporto di lavoro è un atto umano del quale ciascuno deve render conto alla propria coscienza e a Dio.

Un caso di intossicazione

Nel nostro mondo civile non si dà lavoro che non prescinda da rapporti sociali. Oggi non riusciamo a pensare a un lavoro che non sia in qualche modo diretto al bene comune. Diversamente è sfruttamento di malfattori a danno della società.
L’uomo che cerca di proteggere la propria esistenza e soddisfare i desideri personali, deve anche condividere i propri beni con i suoi simili e contribuire a migliorarne le condizioni.
La strada di una civile economia incomincia con un motivo altamente etico: quello di soddisfare le necessità di coloro che sono socialmente più bisognosi.
È la strada percorsa dall’ideologia socialista del secolo, per cui l’individuo diventa più consapevole della propria dipendenza dalla società.
Tuttavia il calcolo che mira a risultati puramente socioeconomici, sovente in balìa delle passioni politiche, è accompagnato dall’asservimento dell’individuo a un potere che interviene con dimensioni finanziarie persino sull’attività intellettuale.
Non vien data forse legittimazione sociale al divorzio, all’aborto, all’eutanasia, alla liberazione sessuale?
Lo stretto e tradizionale legame tra progresso ed economia ha condotto negli ultimi cento anni ad un serio indebolimento dell’idea del bene e del male. Non bisogna sopravvalutare l’economia quando si tratta di problemi umani. La secolare storia dell’uomo sarebbe stata diversa. L’uomo non avrebbe ucciso l’uomo, non lo avrebbe sfruttato con la violenza e con la frode.
II modo di pensare esclusivamente economico sociale, anche se non necessariamente in contraddizione con la sfera religiosa, nella maggior parte delle persone non lascia campo a un approfondimento morale. Tutto il sistema educativo laico è intossicato da questo male, che si dilata a tutti i livelli della società.
L’opinione comune infatti, non del tutto tramontata, da all’Istituzione pubblica, allo Stato, al sindacato, all’industria, una specie di immunità morale. L’apparato burocratico spersonalizza lo Stato, il Ministero, il Provveditorato, l’Ispettorato. quasi fossero privi di qualsiasi responsabilità morale.
Al contrario: l’ente pubblico non ha intelligenza, volontà, coscienza, distinte da coloro che operano in suo nome.

Forza e debolezza di un aggettivo

Don Bosco camminò in senso inverso all’opinione comune. Non basta definirlo Santo Sociale perché fece delle scelte socialmente avanzate.
Sociale è un aggettivo favorito dalla moda che lo sta rendendo vaporoso e vano. È un tributo che il politico paga alla politica, come si pagherebbe un pedaggio. È l’aggettivo che il sindacalista cerca di incastrare tra le sue parole, per “portare avanti il discorso”. È veramente l’aggettivo che “sovra gli altri come aquila vola”.
Don Bosco diede un carattere fortemente religioso al suo impegno sociale, non per fare della religione una disciplina sociale, ma per indicare nei valori spirituali il fondamento di ogni atto umano, che interessi l’economia. Lui stesso disse di aver sperimentato in questo campo la soprannaturale delicatezza della Provvidenza.
Una inattesa incomprensione che incomincia fin dagli elogi dei giornali liberali alla sua morte, e, oggi, un’ombra di vanità di studiosi impertinenti, non riescono a vedere nel Santo Sociale se non una compassione umanitaria o una illuminata intuizione del progresso. L’elogio, in questo senso, per don Bosco, è riduttivo. Non regge. È come una catena che ha un anello che non tiene. Don Bosco non fa il manager dell’economia, ma è l’artista dell’educazione. La più difficile, complessa e drammatica di tutte le arti.
La sua vera missione, per usare un termine cristiano, è questa. Ma per pensare così ci vuole appunto una mentalità religiosa, un qualcosa di soprannaturale, un’invulnerabile spiritualità.