In ricordo di un amico e padre
Scrivere un pensiero su Don Capellari per “Col tempo e col Po” è un’impresa che rasenta il temerario.
Mi sento con il cuore in gola come in quel pomeriggio della primavera del 1959 quando, in assenza del vecchio Don Ghiglieno, nostro insegnante di religione, vedemmo arrivare, inatteso, addirittura il Direttore.
Il terrore era dipinto sui nostri volti; nessuno fiatava; quando consultò il registro, l’unico rumore nettamente percepibile da ognuno di noi era il proprio battito cardiaco. Dopo alcuni interminabili attimi egli si fermò su un nome, avvicinò lo sguardo e lesse, quasi sottovoce: “Giaccone”. Il povero Giaccone restò impietrito, poi, pallidissimo si alzò e, sfiorando appena il pavimento, si avvicinò alla cattedra. Mai interrogazione fu seguita più attentamente e lezione meritò maggior attenzione. Il suo volto scavato, da asceta, con quegli occhiali con montatura essenziale, mi richiamavano la figura di Pio XII, e la sensazione era proprio quella di trovarsi di fronte al Papa stesso.
Io, allievo esterno, avevo minori occasioni di incontro con il Direttore; allora gli allievi autentici erano gli interni; erano loro i veri “collegiali”.
Tutti intuivamo che la sua intelligenza veleggiava su standard molto alti, che la sua visione dei problemi era lucida ed essenziale, che il suo italiano non era mai approssimativo. Ma questi sono pur sempre aspetti non di sostanza; la parte più autentica d’altronde non poteva essere colta da un ragazzo che tra l’altro non viveva la vita di collegio.
L’apprezzamento della grandezza e della profondità dell’uomo fu di molti anni dopo quando, sollevato dagli incarichi direttivi e di insegnamento, Don Saulo, tornato definitivamente a Lombriasco, ebbe modo di occuparsi anche delle piccole cose, oltre che dei collegamenti fittissimi con l’universo degli ex-allievi.
Uomo di una cultura umanistica prodigiosa, cultore del bello, estimatore della ragione illuminata dall’anima, di Bach, di Platone, di Dante, non ebbe problemi a tuffarsi negli ultimi quindici anni di vita, ad occuparsi anche di questo minuscolo paese, della filodrammatica, della corale, ad aiutare in parrocchia dove le sue omelie venivano commentate come e più degli articoli di fondo dei grandi quotidiani: in un italiano da manuale istruiva, si faceva seguire e capire anche da quanti possedevano come unica lingua il dialetto.
In tutto ciò rivelò una squisita umanità ed una capacità di conoscenza degli uomini profonda, da vero educatore di coscienze. Fu in questo periodo della sua vita, ancora fecondissimo, che ebbi modo di vincere la soggezione nei riguardi del mio ex-superiore., Cominciammo a frequentarci, a colloquiare fino, cosa impensabile anni prima, oso dire, a diventare amici. Scoprii la sua visione del mondo sempre positiva, la sua propensione a diffondere speranza, fiducia, la sua fede granitica, il suo innamoramento per Don Bosco, di cui fu cantore ineguagliabile, la sua capacità a capi re a scusare gli altri, mantenendosi sempre rigorosamente se stesso.
Mi ha sempre colpito la certezza che mostrava nel considerarsi servo inutile: era convinto che occorresse operare il bene senza cercare mai la ricompensa ed il ricordo. Insegnò a noi indigeni (abitanti di quella Lombriasco che scherzosamente lui sosteneva essere bella “quando non piove, non c’è la nebbia, non fa caldo, e non è nuvoloso”), ad apprezzare questo borgo a cui riservava dei tratti di descrizione poetica che riuscivano a farci scoprire tracce di bellezza e di interesse che noi non avremmo mai colto.
In questi fascicoletti, con inimitabili tratti di penna, sapeva dipingere situazioni, paesaggi e soprattutto persone. Ora purtroppo nessuno saprà dipingere lui con quella maestria. Me lo immagino scorrere questo numero della sua creatura e criticare con acutezza ogni pagina, ogni frase, ogni immagine contenuta: sarà difficilissimo ottenere la sufficienza.
Nella raccolta dei numeri di. “Col Tempo e Col Po“, impostato in modo così impeccabile da diventare, presso le migliaia di famiglie che lo ricevevano, un prezioso documento da divorare e conservare tra le carte preziose, ha riversato la sua scienza di educatore totale.
Tante volte lo sollecitai a convincere i confratelli che hanno fatto la storia dell’Istituto a chiedere di essere sepolti, quando verrà la loro ora, all’ombra del campanile di questo paese affinché i loro allievi potessero recarsi in pellegrinaggio sulla tomba; lui glissava e poi ci ha fatto il grande regalo, complici i suoi familiari, di rimanere qui pur se disincantato sulla capacità da parte di amici ed estimatori di serbare il ricordo e la riconoscenza.
Lui soleva dire: “I più dimenticano, solo il Padre Eterno non si dimentica di noi”.
Che anche in questo avesse ragione?
Ing. Enrico Benevello
(Ex-all. 1963)