Ma che nome è questo?
Si chiacchierava molto quella sera di fine d’anno, a casa tua, Guido.
Tu dicevi delle cose indiscutibilmente vere e giuste: “Tutti abbiamo la nostra croce e tutti dobbiamo soffrire”. E a me pareva di assistere alla celebrazione di un rito, nella bella sala. Sotto la luce viva dei lampadari brillavano i bicchieri della tavola imbandita. C’era un fiore sulla tovaglia bianca, secondo la gentile usanza di queste parti.
Tic, tac. Mi sembrava di sentire l’antico orologio a pendolo nella casa di mio padre, dove, con quel ritmo inesorabile, entrava il tempo nella mia stanza.
Tic, tac. Addio vecchio anno!
Che bella cosa è l’anno solare. Pensa, Guido, se dovessimo adottare l’anno babilonese. Per fare un giorno ci vorrebbero ottant’anni. Dovrei aspettare ancora cinque anni per gustare gli squisiti agnolotti della tua inclita Mariuccia. Quei bocconi teneri, bianchi e fragranti di ragù.
– Si serva, si serva bene.
– Sì, grazie Mariuccia. Ma non vorrei fare peccati di gola, né la fine dell’imperatore Claudio.
– Quale fine?
– Te lo dirò, te lo dirò. Ora lascia che ti faccia l’augurio che la tua gola sia sempre fresca e pura come il suono di un pianoforte.
Finse di non aver ascoltato, ma sulle labbra aveva un impercettibile sorriso. Si chiacchierava dunque pacatamente con te e con Enrico, di matrimoni, di nascite, di raccolti, di tasse, di case nuove, di cose nuove, di tutto quello, insomma, che forma la pace serena di un piccolo borgo campagnolo all’ombra del campanile.
– Lombriasco è tutto questo – disse Enrico, e senza dar a vedere che era il più istruito tra noi, “esternò” il significato etimologico del nome del paese.
– Lombriasco. Locus umbrae aptus. Lo sa, vero?
Lo sapevo, ma non ricordavo più dove avevo letto che Lombriasco è un luogo dove si sta bene all’ombra.
– C’è sul nostro stemma. Spiegò subito Enrico.
– Ma quale “nostro”? quello dei Romagnano è una fascia d’argento in campo azzurro. Quello della contessa Ortensia è un uccello liscio nel rigonfio piumaggio. Probabilmente uno svasso o un’oca addomesticata.
– Lei ha sempre voglia di prender in giro la gente!
– Perché nella gente c’è sempre quel tanto di bestialità che è nelle bestie, quelle vere.
A questo punto tu Guido mi hai piantato gli occhi in faccia:
– Non vorrete mica mettervi a litigare in una sera come questa! E mi hai versato un bicchiere di nebbiolo.
– Beva questo, è nuovo. Poi discuterete, magari anche di filosofia.
– Grazie. Il vino nuovo mi piace. Testimonia la vitalità della vite. Non so se il vino valga più della filosofia. La filosofia alle volte aumenta le tenebre dell’intelletto. Il vino, al contrario, aggiunge brio alla mente. E così, dopo un sorso, ripresi, con garbata erudizione.
– Conosci te stesso, è la famosa formula della sapienza. Ebbene, io non conosco molto bene me stesso, ma son giunto alla perfetta conoscenza del paese.
Lombriasco ha cento case, un campanile solo e una grande piazza solitamente deserta. Alcune villette tra boschetti e aiuole, e l’acqua potabile. Ma per quanto si faccia moderno, rimane villaggio.
– Voi preti, interruppe Enrico, siete abitualmente indifferenti ai problemi di pubblica utilità.
– Vicoli oscuri e sassosi – continuai – che sbucano in cortili profondi e solitari, che sembrerebbero disabitati se non ci fossero cani, gatti e galline razzolanti. C’è poi una chiesa barocca, appartata, con il tremolio di lumi nell’ombra delle navatelle. Son queste le pacifiche ombre?
– Ci son anche tante brave persone che hanno giudizio, non dico di più, e se il paese è pacifico è segno, non lo so, che non ci divoriamo a vicenda – replicò Enrico con il tono di un profeta di storia contemporanea.
– Per fortuna, dissi, perché la carne umana è tale cibo che chi l’ha gustato non trova di meglio. Lo dice anche Giovenale, poeta latino, satira quindicesima, verso ottantacinquesimo: “L’uomo che ha gustato la carne dell’uomo non trova miglior cibo di questo”.
– Mio Dio, misericordia sospirò dolcemente accorata, Mariuccia.
– Vedete – dissi – dovrei farvi un discorso lungo e voi non lo sopportereste.
– Niente affatto – interruppe Guido – questo discorso mi diverte, continui, continui pure.
– Locus umbrae aptus è senz’altro, per Lombriasco, fantastico e stravagante. Caro Enrico, l’etimologia è una cosa seria, come la storia, come la lirica. Però ti concedo che tra i motti così detti etimologici, ce ne sono di quelli che dicono la verità, altri che dicono il falso, altri che dicono nulla.
L’etimologia popolare, fondandosi su alcune somiglianze, congiunge inconsciamente una certa forma ad un’altra, senza che vi sia un giustificato rapporto. Un esempio tipico è la parola “altare”, come indicante qualcosa che sta in alto, mentre il significato etimologico è da “adultali”, in latino: adoleo: bruciare le vittime, fare sacrifici.
Per stare con una scienza che ci interessa da vicino, la botanica, l’erba celidonia, da “chelidon”, rondine, è stata ribattezzata dai monaci del medioevo: dono del cielo, per le sue virtù medicinali. Far derivare “Valdocco” da vallis occisorum, può essere storicamente probabile, ma etimologicamente non lo è. L’etimologia dei nomi di paesi di varia stratificazione linguistica presenta un numero assai elevato di questi casi. Nel nostro territorio possiamo stabilire quattro strati linguistici: ligure, celtico, romano e germanico.
Il territorio abitato dalla gente ligure ha pressappoco come limite settentrionale il corso del Po. Un toponimo, ossia un nome di luogo, di origine ligure è barg o berg, e significa colle, rocca (Barge). II medesimo significato ha nel celtico brig e nel germanico burg (Briga, Buriasco). Bher invece indica un pendio che scende al fiume, e lang un sistema di colline ondulate (Berceto, Langasco, Lanzo).
Braida è indizio di una presenza germanica, come Wald che significa bosco. Onde Valdocco (Vald-oc, bosco a nord) una regione che si trova anche a Carignano. Vard, posto di guardia, lo vediamo storpiato sempre a Carignano, in (torre di) Valsorda. Ubria è il nome celtico dell’acqua, donde Dubria, Dora, fiume.
Germani, Longobardi e Franchi si sono stabiliti nella nostra regione e non è sempre facile definire a quale di questi gruppi si possa assegnare un determinato nome di paese.
– Non potevi dir meglio una cosa giustissima. Bene, Enrico, sei sempre il primo della classe.
– Nella stessa parola poi sono frequenti gli incastri di sillabe e di lettere, come quei collegamenti in legno, senza uso di chiodi, che sai fare tu, Guido, con tanta perfezione. Incastro è per esempio quell’emme di Lombriasco che in termine grammaticale è detta epèntesi. Basta!
Dopo varie ricerche e puntigliosi raffronti sono giunto alla conclusione di dichiarare la questione del nome di Lombriasco assolutamente disperata.
Ora, Mariuccia, versa pure il caffè nero e bollente, che tenga svegli i miei uditori. A me doppia razione, per non fare la fine dell’imperatore Claudio.
Tic, tac. Battendo e ribattendo, i minuti sgranano la mezzanotte, e ci ammoniscono di aver compiuto un altro breve intervallo del cammino che ci separa da Dio.
Ti ho visto tante volte, Guido, bravo e ingegnoso ebanista, nel tuo romito laboratorio, odoroso di legno e di vernice, scegliere i legni, lasciarli invecchiare come vini, tagliarli, farne incastri, polirli fino a farli splendere. Qualcuno disse che senza eccellenti ebanisti, non ci sarebbero nemmeno buoni poeti e filosofi.
Ma ora io ti vedo nel tuo ufficio più bello, solenne e quasi divino, in quella divina ultima ora dell’anno.
Saulo Capellari
Tra il Castello e la Chiesa c’è soltanto un breve passaggio. La contessa preferisce questa scorciatoia al giro per la strada, sotto l’arco, pericolante relitto di una fortezza diventata inutile. Tutti i giorni, alle sei del mattino, estate e inverno, va alla prima messa bassa, celebrata dal prevosto. Pur mettendosi nel banco del Castello, ha la preoccupazione di non farsi notare. […] Quanti anni erano passati dal suo arrivo a Lombriasco? […] II suo, invece, era un paese costruito su un’altura ventilata, e guardava soleggiati colli e digradanti valli boscose. Montpezat, nella valle del Rodano. […] Ortensia era una ragazza dotata di fascino, con lo sguardo intelligente ma un po’ freddo. […] Corteggiata in questi circoli di aristocratici, Ortensia non tardò ad essere chiesta in sposa.
Un giovane marchese, elegante, ozioso, ironico, trovò che questa donzella aveva razza e cuore. Ma la lunga stagione della “dolcezza del vivere” si avvia rapidamente alla tine. I primi sintomi si fanno avvertire nella vicina Grenoble già nel 1788. […] La Francia precipita fatalmente verso la Rivoluzione. […] A Montpezat, Ortensia vede crollare il mondo in cui è nata. […] I lineamenti del suo giovane marito, perduto nel terrore della Rivoluzione, si disfano come nuvole al tramonto. Decide di partire, mentre enormi vicende sconvolgono la Francia. “Posso darvi qualcosa” disse, un mattino, a quella giovane donna ancora piacente, Gregorio Ponte, suo amico e consigliere a Lione, conte di Lombriasco. […]
Ortensia trovò che quel ricco proprietario era un uomo saggio e onesto, malgrado sembrasse un mediatore di sementi. Lo sposò e divenne contessa. In una giornata fredda e piovosa d’autunno comparve a Lombriasco. All’inizio i rapporti con la gente furono piuttosto difficili. Rispettosi, certo, ma sospettosi. Poi subentrò l’indifferenza. […] All’inizio del 1822 Gregorio andò in Francia per affari. Era già ammalato, e il 3 marzo, a Lione, morì. […] Dietro a quel catafalco che scompariva sotto i paramenti, gli emblemi, gli stemmi e i blasoni, Ortensia vide la vanità e il dolore che si nascondono al fondo di ogni cosa. […]
Quando Ortensia smette il lutto stretto, in paese si accorgono che la contessa è qualcosa di più che una donna devota che fa erigere in chiesa due altari, uno a san Rocco e uno a san Luigi Re di Francia. Nello stesso anno ordina l’abbattimento di una parte vetusta del Castello e offre i materiali di ricupero per la costruzione del campanile. Educata in una casa ben tenuta, fa riparare il muro che dal 1666 cinge la parte signorile del podere, dove il giardino era rimasto senza fiori e il parco sembrava una foresta vergine. Intanto fa ornare le sale da pranzo in stile barocco e con un padiglione alla francese apre all’atrio armoniose prospettive.
[…] L’amicizia lentamente concessa ed acquisita con le donne del paese, che salivano al Castello con il pretesto di andare a prendere o a riportare qualcosa, le insegnò che solo ogni simpatia, ogni compassione accordata agli altri, ci accompagnano sulla strada della vita. […] Ebbe per le donne di servizio la stessa stima, lo stesso rispetto che poteva avere per una nipote o una sorella. […] Fu durante questo periodo che si rese conto come le figlie dei contadini erano le prime vittime di un’economia proba ma spilorcia. Come aiutarle a sistemarsi senza umiliazioni? Ebbe allora un’intuizione nata forse da una segreta nostalgia di maternità. II premio era molto ambito, anche perché quella somma costituiva una dote completa, con appezzamento di terra e corredo. Non voglio esagerare l’importanza della Rosiera, che in un’epoca come la nostra appare così fuori moda.
Ma negli anni in cui né l’azione operaia né il risveglio del pensiero non avevano ancora trasformato lo sfondo sociale, determinate iniziative fecero compiere al cattolicesimo un deciso passo verso le classi prive di un qualsiasi appoggio economico. […] La vita di Ortensia ha un tramonto sereno. I paesani l’apprezzeranno quando sarà già morta e le dedicheranno una via. […] Era il 1834. In quell’anno don Bosco entrava in seminario. Sessant’anni dopo i suoi salesiani entrarono nel Castello, dandogli una delle destinazioni più nobili che possa avere un edificio abbandonato.
Saulo Capellari