Lo chiamavano il vecchio John

Il bosco d’origine

L’animale allo stato libero. torna a morire nella foresta in cui era nato.
Don Acchiardo era legatissimo alla frazione che gli diede i natali. Negli ultimi anni di vita si preoccupò di realizzare, insieme ai fratelli, una tomba di famiglia, nella quale scelse per sé un loculo “ben esposto al sole e comodo per un mazzo di fiori”. Parlava volentieri di quella che sarebbe stata la sua seconda casa, in attesa della terza, quella definitiva, il Paradiso.

Un singolare ecosistema

Ogni vivente si abbozza nel seno materno su un progetto ben definito che verrà realizzato nelle forme e nei caratteri definitivi in tempi successivi. L’aspetto fisico, il modo di incedere, le reazioni agli avvenimenti sviluppano un programma predeterminato. Don Antonio non poteva nascondere di essere figlio di una terra difficile, aspra, matrigna. Nacque in una frazione di Dronero, una volta ricca di sole e di vita, oggi dimenticata. Non fa più storia. Solo le radici di chi vi nacque continuano a essere legate a quel microcosmo che vede spegnersi la speranza.

Patate lesse e grano saraceno

Erano (già allora), anni di transizione da una economia agricola povera, povera, ad un’altra economia ancora povera.
Spazi ristretti, fazzoletti di terra sottratti alle pietraie e difese dai rovi, poche vaccherelle immagrite, scarsa dipendenza dal mercato. Si vende poco e si acquista meno.
I nuclei familiari hanno gli stessi problemi esistenziali.
Le casette sono spoglie, essenziali. riscaldate dal respiro umido degli animali e dalla rispettosa comprensione familiare. Due gli ambienti privilegiati: la stalla, la cucina.
Nel grande camino d’angolo è perennemente appeso il pentolone di rame multiuso. Sul tavolo di castagno selvatico, ricavato e assemblato con ascia e sega da ignoti antenati, la mamma gestisce i consumi della famiglia.
In alternativa al ripetitivo piatto di polenta e castagne lesse, il pane fatto di farina di grano integrale, miscelata a segale e grano saraceno, cotto al forno della frazione. Il pane sfornato una volta al mese in forme grandi fa mostra di sé nella madia o sulle stagiere che d’estate ospiteranno i bachi da seta. Quando diventa troppo duro si usa l’apposito tagliapane o il martello per portarlo a portata di bocca. E poi patate, ancora polenta e castagne bianche cotte nel latte.
Un posto a tavola non è sempre disponibile per tutti. La mamma, sempre in piedi, vera Marta evangelica, indaffarata serve con attenzione alle differenti necessità individuali. I bambini sulle ginocchia dei nonni o appollaiati sui gradini della scala che porta al fienile o al granaio d’estate, o in stalla d’inverno.

Diaspora

Le piccole querce sgusciate dalle ghiande si fanno alberi frondosi, ramificati. In antagonismo tra loro per gli spazi sempre più ridotti, rubando luce e calore, immagazzinano energie disponibili. Si preparano a lasciare il nido.
Il nucleo familiare è lento a formarsi. Poi si scompone e si modifica col crescere delle braccia e delle bocche. Le figlie si maritano per fare posto alle cognate in arrivo. I maschi maggiori allungano gli occhi oltre i confini limitanti il podere, il paese.
Partenze stagionali verso la vicina Francia, ove diventano boscaioli, sguatteri d’albergo, facchini, manovali. II rientro in famiglia è previsto con l’inizio dei lavori primaverili.
Partenze definitive. Lo strappo è particolarmente doloroso per gli anziani che assistono all’impoverimento del ceppo.
Gli Acchiardo non ebbero diverso comportamento. Subirono tutti il richiamo di sirene più o meno lontane. In particolare il fratello più vecchio si fa salesiano e parte per l’alto Brasile, navigatore di grandi fiumi e apostolo instancabile. In occasione di un breve rientro in Italia, quando il check-up rivela un male incurabile, la nostalgia delle foreste del Mato Grosso, terra d’adozione, si fa irresistibile. Nel timore di essere trattenuto in Italia, riprende la vecchia valigia di cartone e di nascosto va a morire tra i suoi Indios.
Don Antonio approdò più vicino, sulla sponda sinistra del Po, non lontano dalle origini. Un nipote seguirà l’esempio dei due zii, facendosi salesiano.
In un lungo cammino di sacrifici ma anche di schiette soddisfazioni, don Acchiardo diviene insieme a Maira. Pellice e Varaita un affluente del fiume Po. Passano gli anni, passano a decine i salesiani, avvenimenti lieti e tristi si succedono, ma don Antonio è sempre lì, in attesa di un altro domani, di stagioni nuove. Parla volentieri ora del passato mentre lo sguardo è orientato alle sorgenti, alle radici del suo essere. In un ultimo colloquio col direttore dirà “sono qui, penso alla mia vita e alle tante vanità accumulate”.
Nei giorni tristi del declino e della scomparsa di don Antonio, casualmente, si scoprì un profondo e preoccupante stato di sofferenza nelle radici dell’ippocastano, simbolo e memoria dell’attività di tanti salesiani e giovani studenti.
Pura, casuale coincidenza?
I giganti non muoiono mai da soli.

Non tutto muore

Alexis Carrel, in “Questo è l’uomo” vede migliaia e milioni di fili innpercettibili dipartirsi dal cuore e dal cervello di ogni uomo. Strumenti di comunicazione, di partecipazione, di condivisione.
Per il mondo che conobbe don Antonio, quei fili non si sono staccati.
La corrente continua a Iluirc. I destinatari: ex-allievi, confratelli, persone care.

L’uomo Don Antonio e le stagioni bibliche

Dio creò la materia, le acque, la terra, poi creò la vita, fece l’uomo con le sue stesse mani e gli consegnò il mondo.
Don Antonio ha vissuto tutte le epoche storiche di Lombriasco. Non c’è palmo di terra, angolo della casa, che insieme a muri, fognature, non portino la sua impronta.
Uomo dell’alba. Uomo del tramonto. Uomo del meriggio. Uomo di tutti i tempi.
Come “rurale” fu in parte autodidatta e in parte copiatore dell’esperienza di un grande maestro, Don Lazzero.

Il maestro

Era patetico vederlo guidare una fila di “primini” dell’LT.A. con zappa, rastrello, badile, tridente, verso i campi dell’azienda. Disponibile sì, una entro limiti sopportabili, nell’insegnare a un ragazzino proveniente dal quattordicesimo piano di un condominio di Corso Vittorio che la zappa non è un ferro (la stiro e che il badile si prende con due mani. Non lo sorpresero le nuove tecnologie agrarie del dopoguerra. L’adattamento a strumenti nuovi gli costò sforzi di volontà e anche gesti di ribellione subito superati. Valga per tutti un esempio storico. Le forze motrici della SAS erano una trattrice Fordson, un mastodonte di appena 35 HP, la prima trattrice comparsa all’orizzonte lombriaschese e due cavalli possenti, il Dolo e il Mascarin.
I due quadrupedi, causa un inverno eccezionalmente lungo, restarono inutilizzati nella stalla a mangiare fieno per cinque mesi di fila. Nell’occasione don Antonio subì un reiterato attacco di alcuni confratelli sulla opportunità di vendere i cavalli e operare con la trattrice che d’inverno non consuma né fieno né paglia. Don Antonio si ribellò all’idea di perdere il Dolo e il Mascarin perché li giudicava insostituibili per certi lavori complementari e protestò la sua incapacità all’uso di tanti strumenti nuovi. Il giorno dopo con fare umile e rassegnato ammise che il mondo della tecnica stava cambiando.
I cavalli furono immediatamente venduti, ma, per la semina del mais il vecchio John cavalcava il trattore Fordson.
Rugiada e brina, sole e venti gli bruciarono i capelli e gli resero la pelle ruvida e graffiante come quella di un pescatore di altura.
Don Acchiardo un timido mancato?
Buono, sollecito per qualsiasi piacere richiesto. Caritatevole e paziente come un patriarca, ma era meglio contare fino a dieci prima di pestargli la coda.
Gli occhi affossati nelle occhiaie profonde, appena ombreggiati da rade sopracciglia rossiccie. Due occhi piccoli, socchiusi che raramente fissavano il volto altrui per non creare soggezione nell’occasionale destinatario che gli rubava porzioni di saggezza, ma anche per non scoprire i suoi intimi pensieri.
Come sacerdote completò la preparazione in età matura, dopo l’e sperienza del fango calpestato nelle trincee del Carso, rispondendo generosamente alla tardiva chiamata della Provvidenza.

Il grigio verde e la tonaca

Don Antonio fu uno dei ragazzi del ’99 che, ancora odoranti di latte materno, fecero muro alla valanga austriaca sulle montagne e sui fiumi sacri agli italiani.
Appena deposta la divisa militare incontrò don Bosco che con fare “sornione e paterno”, lo arruolò con la promessa di tanto lavoro e sacrifici… una strada tutta in salita. Il caporale Antonio Acchiardo cambiò divisa e divenne umile studente, in attesa di essere un buon salesiano, sacerdote, insegnante.

L’albero sgusciato dalla ghianda sopportò bufere, venti impietosi, fulmini e offese di ogni genere.
Era ancorato a un terreno compatto e resistente.
Non cadde, si spense il 9 Marzo 1995. Aveva 96 anni.

P.S.

Don Antonio amava tanto le piante ma non aveva simpatia per i salici piangenti, le sofore e i faggi penduli, dai rami contorti, ricadenti al suolo, simbolo di sofferenza di cui, diceva, “è già pieno il mondo”.

Ragazzo del ’99

(Rari appunti autobiografici di Don Acchiardo)

Sono annoverato tra gli ex-combattenti della ’15-’18 e decorato dal primo cittadino del mio piccolo paese di campagna della medaglia d’oro di Vittorio Veneto, tanto piccola come piccola è stata la rispettiva pensione di guerra: sessantamila lire all’anno, portata ultimamente a centocinquanta.
Veramente io non ho combattuto – pur essendo presente nei posti di aspre battaglie in cui ha partecipato il mio reggimento, il 74°, – perché fui sempre chiamato ad essere al servizio dei venticinque ufficiali del mio battaglione nelle occupazini più svariate.
Il mio fucile ha sparato in tre anni un solo caricatore al tiro a segno di Lodi, pur essendo sempre stato al mio fianco, e ho lanciato due bombe a mano, pure al tiro a segno di Lodi, dove ho fatto un mese di preparazione, sudando, in quel caldissimo luglio 1918, non sette camicie al giorno, ma più volte la medesima, perché ne avevamo una sola che ci veniva cambiata una volta ogni quindici giorni e meritevole eli bucato con un’altra più o meno di misura.

Una vicenda

Il 22 ottobre 1918 mi trovavo in un piccolo avamposto tra le cime del Grappa, occupate dagli austriaci. Verso le 18 arriva l’aiutante maggiore, raduna gli ufficiali e annuncia che nella notte ci sarà l’avanzata: il nostro reggimento deve arrivare a una località chiamata Fontana Secca, poi proseguiranno altre formazioni.
La notizia portò uno scompiglio nel plotone di arditi; gli Austriaci sentirono e cominciarono i tiri di artiglieria. Una granata scoppiò a pochi metri dal battaglione, mentre si stava distribuendo liquori e causò cinque morti ed una quarantina di feriti.
Alle tre del 23 la nostra artiglieria iniziò il bombardamento delle trincee nemiche che durò due ore e ne seguì l’avanzata. Con aspri combattimenti e con molte vittime si occuparono le postazioni nemiche, ma la controffensiva nemica rioccupò: così si continuò per tre giorni. Tanti erano i caduti che i camminamenti e le trincee ne erano pieni.
Poi tre giorni di sospensione: ma sia i cannoni che le mitraglie continuavano ed i telefonisti, piangendo, dovevano distendere i fili tra i diversi comandi, fili che in antecedenza avevano raccolto perché il nemico non intercettasse le telefonate. La notte del 27 ottobre improvvisa giunse la notizia: il nemico si è ritirato. La nostra terza armata aveva passato il Piave ed i nemici di fronte a noi, per non essere presi alle spalle, si erano ritirati e le nostre truppe li inseguirono ed il tutto si concluse con la battaglia di Vittorio Veneto.
In quei momenti improvvisamente tutto il Grappa si cambiò come in una “sagra di paese”, in noi si riaccese la speranza di ritornare alla’ famiglia, speranza che da qualche giorno era svanita.
A conclusione della guerra, Come uno dei più anziani della mia compagnia, ero stato scelto per andare a Roma come rappresentante, ma poi escluso perché non avevo medaglie di valore.
Potei poi in un componimento descrivere il giorno del Grappa come il più bello della mia vita.
Don Antonio Acchiardo